Era il 1970 quando Kenzo Takada inaugurò la sua prima collezione, carica di omaggi etnici e colori in netto contrasto con l’atmosfera fredda e formale delle strade di Parigi. Lo show, tenutosi all’interno di un tendone da circo, non segnò solo una svolta nella vita del designer nipponico ma anche l’entrata in scena livello internazionale di quello che sarebbe stato un vero e proprio esercito di designer provenienti dalla terra del sol levante.
Già dopo la seconda guerra mondiale il Giappone si era molto avvicinato a quella che era l’estetica della moda occidentale. Takada fu effettivamente il primo fra tutti a espandere la sua impronta oltre l’Oriente, seguirono poi Issey Miyake, che tenne le sue prime sfilate prima a New York nel 1971 e successivamente a Parigi nel 1973, presentando indumenti dalla silhouettes piatta che costituivano la storica struttura dell’abbigliamento nipponico che in questo modo poneva in essere un’elaborazione tradizionale ma allo stesso tempo innovativa del concetto di spazio tra corpo e tessuto.
Un decennio più tardi fu il turno di Ray Kawakubo e Yoji Yamamoto (Come dimenticare le creazioni di quest’ultimo indossate da David Bowie).
Nonostante questi nuovi concetti moderni uniti alle tradizioni permisero al Giappone di entrare ufficialmente nel panorama mondiale della moda, all’interno della penisola si sentiva ancora la mancanza di qualcosa, si può infatti affermare che fino agli anni 90, il concetto di stile e di vestiario in Giappone traeva le sue origini da radici occidentali (la cui diffusione era favorita da sistemi comunicazione quali riviste o programmi tv) o storiche, ma i giovani giapponesi sentivano sempre di più l’esigenza di qualcosa di innovativo.
Sia chiaro, non era intenzione di nessun giovane giapponese cancellare lo stile occidentale o rinnegare le tradizioni legate alla propria storia, tutta via i teenagers erano determinati a ricercare un modo per reinterpretare il tutto in maniera più naturale, spontanea ma soprattutto moderna.
Le vicessitudini economico-sociali accadute in giappone (come ad esempio lo scoppio della bolla speculativa alla fine degli anni 80) garantiranno agli anni 90 il titolo di “decennio perduto”. Divenne inoltre particolarmente proficua l’esportazione di beni tecnologici come i prodotti della Sony e della Nintendo, oggi diffusi in tutto il mondo.
Questo evento contribuì ad un aumento della domanda tecnologica, e fu allora che queste innovazioni andarono a colpire anche le tendenze di vestiario e si arrivò così alla nascita della moda Cyber.
Ma in cosa consiste esattamente? Quando si parla di moda Cyber si intende una costante tendenza ad adornarsi di tutto ciò che futuristico, a partire dagli accessori (non dimentichiamoci che gli anni 90 furono l’epoca dei primi cellulari dal design più moderno, dei computer e dei robot). L’abbigliamento Cyber si appropria di materiali sintetici o dalla parvenza artificiale, come vinile o pelliccia sintetica.
Si adorna di accessori in metallo e plastica, tutto rigorosamente dai colori fosforescenti che vanno ad influenzare anche il make-up.
Gli esponenti di questa moda completano poi il quadro con baggy pants, top e giacche, scarpe alte e larghe o stivali con la zeppa e sneakers.
Anche la cultura della disco ha influenzato molto la moda Cyber, come già detto in precedenza questa si serve di materiali reattivi alle luci UV o fosforescenti in aggiunta i Glow Stick, che erano usati come bracciali o semplicemente come offerta d’effetti scenici da aggiungere all’outfit. Nonostante la predilezione ai colori fluo venivano indossate anche le tinte fredde come il nero il bianco.
La filosofia che si cela dietro a questa scelta di vestiario, è direttamente influenzata dalla concezione di quelli che erano gli anni 90 per gli adolescenti occidentali, i Cyber infatti nutrivano una sorta di “rassegnazione” verso il passato e avevano prevalentemente tendenze di pensiero progressiste ma non necessariamente ottimistiche.
In sintesi ritenevano che il futuro fosse sempre comunque preferibile al presente, una concezione fluida e instabile della società, vista come un organismo in costante evoluzione, nettamente in contrasto con quelli che erano le allora idee dei conservatori e dei neoluddisti.
L’integrazione della tecnologia per la comunità Cyber è molto importante anche nel vestiario, in quanto ogni aspetto della nostra vita è destinato a crescere sempre di più grazie ad essa.
I Cyber dunque non sono semplici esseri umani ma si considerano esseri padroni non solo della terra ma anche della tecnologia, inseriti in una società dove a governare sono l’informatica e la biochimica, guerrieri cibernetici e solitari che cercavano di sopravvivere in un pianeta inquinato e piombato nel caos (caratteristica comune di molte altre subculture nate nel corso del 900).
La scena Cyber è tipicamente composta dai giovani fra i 15 e i trent’anni e successivamente ebbe una diffusione a macchia d’olio con varianti ispirate (e a volte fraintese) in tutto il mondo.
Dunque la moda Cyber, similmente al grunge americano, puntava a distinguersi da una società arcaica e antica fino a quel momento legata alle sue radici storiche.
Perché alla fine, non è stata forse questa l’essenza degli anni 90? Giovani che vogliono trovare una propria identità in un mondo dove regole e destini erano già scritti?
-Di Cosimo Baldi
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