“Coronavirus, primo italiano positivo ai test: Si tratta di uno dei 56 connazionali rimpatriati da Wuhan, messo in quarantena nella città militare della Cecchignola. L'annuncio è arrivato dall'Istituto Superiore di Sanità: paziente positivo al nuovo coronavirus”
Così tuonava il titolo della prima pagina del quotidiano "Il giornale", il 6 Febbraio 2020.
Per le strade di Firenze (dove all’epoca frequentavo l’università) si respirava quest’aria d’isteria che per tutti rappresentava una scomoda novità, scene di persone che sul treno alzavano la mascherina (al tempo non obbligatoria) al suono di un colpo di tosse o di uno starnuto, o persone che evitavano, in maniera talvolta sgarbata e maleducata la popolazione di origine (effettiva o presunta) cinese, erano ormai diventate presenti nella quotidianità collettiva, nessuno, tra cittadini e istituzioni, poteva immaginare che di lì a poco l’assetto mondiale sarebbe cambiato nei successivi due anni, in un mix di misure restrittive e norme anti contagio.
All'inizio di quella che fu la pandemia di Covid-19, la scrittrice indiana Arundhati Roy, ipotizzò in un suo articolo che questa avrebbe rappresentato per il genere umano il passaggio in un altro mondo:
Il coronavirus ha fatto inginocchiare i potenti e fermato il mondo come nessun’altra cosa prima. Le nostre menti continuano a correre avanti e indietro, anelando a un ritorno alla “normalità”, cercando di ricucire il futuro con il passato, rifiutandosi di riconoscere la rottura. Ma la rottura esiste. E nel bel mezzo di questa terribile disperazione, ci offre l’opportunità di ripensare alla macchina dell’Apocalisse che abbiamo costruito per noi stessi. Niente potrebbe essere peggio di un ritorno alla normalità. Storicamente, le pandemie hanno costretto gli umani a rompere con il passato e immaginare il mondo daccapo. Questa non è diversa. È una porta, un passaggio tra un mondo e il successivo. Possiamo scegliere di varcarlo trascinandoci dietro le carcasse del nostro pregiudizio, dell’odio, dell’avarizia, le nostre banche dati e le nostre idee morte, i nostri fiumi morti e i cieli pieni di fumo. O possiamo camminarci con leggerezza, con poco bagaglio, pronti a immaginare un altro mondo, e pronti a lottare per esso.
Per le persone come me, nate alla fine degli anni 90, il coronavirus rappresentava
“la nostra prima pandemia”, tuttavia cè una generazione che, a malincuore, conosceva molto bene fattori come l’isteria di massa e il ritrovarsi all’improvviso a dover far fronte alla mancanza di amici o parenti per un male silenzioso e virale.
Vi fu però la differenza che, sebbene il covid abbia ricevuto molto seguito da parte dei media di tutto il mondo, quando l'AIDS iniziò a palesarsi, non vi fu nessuna copertura giornalistica e nessun riconoscimento della malattia da parte delle istituzioni.
Tale fenomeno si attribuisce soprattutto al fatto che a differenza del coronavirus, l'AIDS non fu una “piaga di tutti” (o almeno così si pensava), ma bensì iniziò col colpire membri di una parte della società già di per se emarginata, come erano considerate allora tutte le persone appartenenti alla comunità LGBTQ+.
Simon Doonan, nel suo libro The Asylum: A Collage of Couture Reminiscences and Hysteria (2013), afferma:
"A quelli di voi che non c'erano, posso solo dire questo: non avete idea di quanto siete fortunati."
Quando la storia sentì il bisogno di identificare il così detto "paziente zero", la lama della ghigliottina dell’opinione pubblica colpì lo steward venticinquenne dell'Air Canada, Gaëtan Dugas, che i media dell’epoca non esitarono a definire “un predatore sessuale gay che ha portato e diffuso il virus dell'Hiv prima nel Nord America e poi nel resto del mondo”.
Quello che si ignorava però, è che al tramonto dell’era dell’amore libero propria degli anni 70, già vi erano stati riportati casi isolati di Aids negli Stati Uniti e in numerose altre aree del mondo (Haiti, Africa ed Europa).
Addirittura, si ritiene che il primo caso di sieropositività accertato risalga al 1959, quando venne prelevato da un uomo di Leopoldville (oggi Kinshasa) un campione di sangue che, analizzato trent'anni dopo, dimostrò di contenere anticorpi all'HIV-1.
Alla fine del 1980, Michael Gottlieb, ricercatore dell'Università della California, stvolse una ricerca clinica sui deficit del sistema immunitario. Analizzando le cartelle cliniche dei ricoverati in ospedale, si imbattè nel caso di un giovane paziente che soffriva di un raro tipo di polmonite. Nei mesi successivi, Gottlieb scoprì altri tre casi di pazienti, tutti omosessuali sessualmente attivi, con un basso livello di linfociti T. L’anno successivo, i Centers for Disease Control and Prevention (cdc di Atlanta) registrò un aumento improvviso e inspiegabile di casi di polmonite da Pneumocystis carinii in giovani omosessuali. Quando nel giugno 1982 venne registrato un gruppo di casi fra maschi omosessuali nel sud della California, cominciò a serpeggiare fra i ricercatori l’ipotesi che la malattia avesse un’origine virale.
Solo nel 1986 un comitato internazionale stabilì un nuovo nome per indicare il virus dell'Aids: d’ora in poi si parlerà soltanto di Hiv, ovvero “Virus dell’immunodeficienza umana”.
Ma come fu influenzata la moda dalla piaga dell’aids?
Che la moda sia sempre stata queer, non è un segreto. Nel corso del tempo stilisti come Ray Petri (apparso nelle riviste The Face, i-D e Arena) attinsero ai look osservati nei locali gay per realizzare le loro collezioni.
Nella New York degli anni '80, la moda era la seconda industria più grande della città e queste persone ne erano il polso.
Durante gli anni '80, l'AIDS causò la morte di stilisti tra cui Perry Ellis e Willie Smith e molte altre figure (sia maschili che femminili) nel settore della moda:
assistenti di showroom, stilisti, fotografi, direttori creativi, vetrinisti: un'intera categoria creativa, quasi completamente spazzata via.
Nonostante il settore fosse stato duramente colpito da questa piaga moderna, complice anche una società che vedeva (adesso a maggior ragione) l’omosessualità come un tabù non accettato dalla collettività, i suoi effetti raramente venivano discussi, ammessi o riconosciuti.
Quale fu il risultato? Ignoranza, disinformazione e fra tutto, un’omofobia sempre più dilagante in una società che vedeva già un qualcosa di sbagliato e innaturale trasformarsi in qualcosa di contagioso e fatale. Per le persone divenne impossibile separare le parole omosessualità e AIDS dall'industria della moda.
E i talenti creativi che vi si rifugiavano, perché avevano sempre visto in questa filiera un porto sicuro dove rifugiarsi e poter sfogare liberamente la loro identità creativa, ne soffrirono molto.
Il tutto era aggravato dal silenzio o dall’odio delle stesse istituzioni, che non tardarono a definire l’HIV “Il cancro dei gay” (In Italia, l’allora il ministro della Sanità Carlo Donat-Cattin disse che "l'Aids ce l'ha chi se lo va a cercare", e nel 1988 inviò una lettera a tutti gli italiani per dire che era "consigliabile attenersi" a "un’esistenza normale nei rapporti affettivi e sessuali").
All’inizio degli anni 90 l'Aids era sempre un argomento tabù, ma le cose sarebbero cambiate molto presto.
Il primo Dicembre 1993, in un'incursione prima dell'alba, l'enorme obelisco a Place De La Concorde a Parigi fu interamente ricoperto da un preservativo rosa brillante alto 22 metri, in un atto decisamente Camp. I responsabili furono identificati negli aggregati di AIDS Coalition to Unleash Power(ACT UP), un'organizzazione internazionale ad azione diretta impegnata a richiamare l'attenzione sulle vite dei malati di AIDS, sponsorizzati da Benetton, senza l'approvazione del governo francese.
"Ho perso molti amici, sono devastato, ma dobbiamo aiutare a diffondere informazioni"
Dichiarava Jean-Jacques Picart, presidente di Christian Lacroix.
Il mondo della moda (e dell’arte in generale) così cominciò a sentire l’esigenza di combattere la diffusione della pestilenza e l’ignoranza che ne derivava attraverso il mezzo più potente a sua disposizione: l’informazione.
I designer e le case di moda iniziarono ad unire a quella che fu la filosofia cardine degli anni 90 (basata sul rifiuto del vecchio e la trasgressione), una sorta di “sessualizzazione consapevole”, usando la nudità come mezzo per informare e proteggere.
Infatti, sebbene gli anni 80 basassero la loro estetica sullo sfarzo e su un’esagerazione di volume, gli stilisti degli anni 90 iniziarono a concepire abiti atti a creare una seconda pelle, una sorta di involucro protettivo ed aderente per l’indossatore.
In un mondo decimato dall’epidemia dell’AIDS quindi, nacque un collettivo di moda-tabù che gridava “proteggetevi”, in un perfetto mix di trasgressione anni 90 ed energia e creatività dell’era pre-AIDS.
Con materiali aderenti, quasi fusi con il corpo quali Elastan, vinile, pelle, plastiche trasparenti (che divennero il nuovo cotone) cominciò una nuova era, e tutto inizia, come nella bibbia, con Adamo ed Eva (con un Eva di Jean Paul Gautier, per essere precisi). Durante lo show pret-a-porter Primavera/Estate 1993, due incarnazioni (una delle quali portata in passerella da Yasmine Ghauri) di un’Eva idilliaca, gioiosa e spensierata, coperta da un abito attillato a trasparente adornato di piccole pietre preziose, metafora di una nudità scandalosa ma che protegge il corpo (illusione del profilattico), sfilarono il 16 Ottobre 1992 a Parigi in un’atmosfera primordiale e sicura, investita da uno sfarzo illusorio e scintillante.
Di tutti i designer però, decisamente degno di nota è l’impegno profuso nella causa da Walter Van Beirendonck, che nel corso delle stagioni dal 1995 al 96’, ingaggiò la sua battaglia all’AIDS con un fare quasi personale.
Iniziò tutto al Lido di Parigi nel Luglio del 1995:
Ad un ritmo silenzioso ma aggressivo si palesano uno dopo l'altro i "Condom Man", uomini muscolosi e dal fisico titanico coperti solo di lattex colorato, presenti per simboleggiare un nuovo tipo di uomo protetto e indistruttibile. I corpi ora lucenti dei modelli, si presentano uno ad uno in tutta la loro forza, i loro sguardi si celano nascosti dietro schermi protettivi di tessuto, le loro teste sono interamente protette da uno scudo che risalta ancora di più le loro silhouette, al grido di “sesso sicuro”.
Successivamente, nell'estate del 96' i modelli di Van Beirendonck sfileranno con in dosso maschere con slogan politici, per poi cadere inaspettatamente nel vuoto alla fine della passerella, in quello che è un errore voluto, metafora della “cecità volontaria” di una società che, accortasi troppo tardi del pericolo, finisce per sprofondare dentro di esso. Gli abiti di questa collezione donano a chi li indossa la parvenza di un viaggiatore astrale: quasi come un insieme di corpi eterei appartenenti ad un gruppo di turisti transgalattici provenienti da una galassia lontana, che abbagliano gli spettatori con la luce riflessa da i capi da loro indossati.
Nel 1998 fu poi il turno di Paco Rabanne, che il 12 Gennaio dello stesso anno a Parigi farà sfilare i suoi modelli con indosso abiti metallici la cui forma ricorda i tatuaggi tipici delle tradizioni maori, con tanto di copricapo di piume di struzzo bianco. I modelli sono avvolti da quella che è una sorta di cintura di castità metallica, di cui il particolare che risalta di più all’occhio è senz’altro la presenza dei genitali esposti, anch’essi in metallo. Ci ritroviamo così davanti a dei corpi iper-sessualizzati, in cui tutte le forme sono ben visibili ma intangibili, a causa dell’armature che li ricoprono. L’abito diventa quindi il luogo di nascita di un paradosso:
“Puoi guaradre quanto vuoi, puoi guardare quello che vuoi, ma ti sarà impossibile toccarlo”
Ora, se consideriamo le affermazioni della Roy sopracitate all’inizio dell’articolo, si può affermare che la pandemia di AIDS abbia costituito non solo per la società, ma anche per l’industria della moda una qualche sorta di passaggio?
Se ci riferiamo di nuovo al Covid possiamo citare alcune “innovazione estetiche” da esso originate, come ad esempio la nascita del Trikini (indumento da spiaggia, a tre pezzi, sopra, sotto e mascherina).
Sicuramente il cambiamento rispetto alle passerelle degli anni 80 risulta evidente,
sia per le silhouette che per i capi, ma vediamo anche il vestiario assumere una componente politica, atta a mandare un messaggio, e chissà che in futuro, non vedremo anche il tema del COVID-19 arrivare sulle passerelle.
Per altre rivoluzioni in campo estetico quindi, non ci resta che aspettare la prossima pandemia (ma speriamo proprio di no).
-Di Cosimo Baldi
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